P.

Sono una donna di 37 anni e lavoro in un ambiente prettamente maschile, duro e rischioso.
Il tempo e le opportunità che io ho scelto di cogliere mi hanno messa, nel piccolo delle mie mansioni, in una posizione di potere.
Ho scelto di non avere figli e di non avere un compagno/marito che si imponga, negandomi la possibilità di fare ciò che mi piace, adducendo scuse del tipo che questo lavoro non è per le donne, che devo stare a casa, che non sono credibile.
Sono circondata da colleghi che mi stimano e mi vogliono bene ma per loro sono “collega” e quindi basta dire “oops/scusa” in caso di uscite infelici per essere a posto con la coscienza.
Iperportettivi a volte, lo ammetto, quindi sarò pure collega ma in fondo per loro sono una donna (nel senso fragile ed insicuro del termine in contrapposizione al loro essere maschi alfa).
A volte esagerati nel cameratismo, chi si trova ad avere a che fare con ambienti quasi esclusivamente maschili sa bene a che livello di bestialità verbale si può assistere.
Tra di loro vige la regola non scritta della provocazione estrema, per vedere chi regge la pressione, chi si offende, chi tace e così si stila la classifica.
Questa dinamica ovviamente mi vede coinvolta ma i parametri per valutarmi sono diversi ed allora quando sono assertiva, per loro sono acida/mestruata/esaurita.
Quando sono fragile, perché anche io ho i miei limiti, per loro sono la donna che ogni volta proteggono.
Quando sono severa, anche con loro, sono esagerata ed incapace di comprendere la situazione, che non è poi così seria o grave o spiacevole.
Guardata con stupore da molte colleghe che hanno scelto di mettersi da parte per altre esigenze (vuoi la mancanza di predisposizione, vuoi il marito dominante, vuoi i figli, vuoi la pigrizia), vengo additata come colei che “resiste” perché alla fine una donna mica ce la può fare.
Guardo alcune nuove colleghe che collezionano flirt, errori dovuti a disattenzione perché la priorità non è far bene ma piacere a più colleghi possibili, conciandosi come le veline e parlando peggio di 15enni nel pieno di una tempesta ormonale.
Loro alimentano la convinzione che la donna non ce la può fare, loro si fanno trattare come donna oggetto nonostante abbiamo obbiettivi che poi raggiungeranno (ma comunque fuori dall’ambito lavorativo), loro dicono “uh questo ufficio non mi vuole perché sono donna” con una espressione da gattina impaurita dagli occhi grandi e così via, nel vortice dei luoghi comuni di una cultura patriarcale.
Quindi mi ritrovo tra due fuochi, il collega medio con la clava e la collega media shampista.
Facile distinguersi ma difficile farsi spazio e proteggere certi valori, per me imprescindibili.

Piccolo elenco di episodi e frasi:
– che ca@@o fai ancora in giro, ti fai i ditalini??? vieni a darmi il cambio che devo andare a prendere il caffé;
– le donne stanno bene a casa, ad aspettare il marito che le soddisfi altrimenti in strada a battere;
– meno male che non c’eri, non era cosa da donne;
– tolta da incarico e responsabilità per essere sostituita da nuovi ed apprendisti colleghi maschi perché il responsabile di settore non vuole donne (comunicazione avuta da una donna a capo del settore. Debole alle pressioni di un subordinato nonostante la posizione di potere, incurante della mia preparazione, della mia anzianità nel ruolo, dei risultati ottenuti, della discriminazione pazzesca che stava avallando).

Resisto si, perché generalizzare è dannoso; perché, nonostante le difficoltà, ci sono uomini e donne che si distinguono dalla massa; perché il livellamento verso il basso che sembra avere la meglio, potrà vincere la battaglia ma la guerra la vinceremo noi.